30.11.07

«Benigni-amente d'umiltà vestuta»

benigni
«Noi a volte si crede di essere chissà che, e invece siamo solo dei buffi che fan ridere», dice Roberto Benigni sul palco di Raiuno e così butta lì di corsa la didascalia al suo bestiario umano quasi tutto chiuso nel recinto del potere. Che sta facendo quel comico toscano che si agita scomposto davanti alle telecamere con la «presunzione» di trasmettere Dante ai suoi maligni italiani? Lasciate stare il fatto che sta salvando, con i suoi ascolti, una importante rete televisiva tutt’ora governata da gente che avrebbe mandato al rogo le belle cose che quel comico porta nelle tasche dell’anima. Benigni, con l’umiltà dell’intelligenza e il coraggio del corpo sta forse montando una nuova divina commedia, un sequel, o una postfazione se volete, che riguarda il nostro tempo e che può essere annessa a quel canto d’amor terribile e di furore poetico che «sfuggì» dalla vita di Dante agli inizi del nostro linguaggio.

È troppo? Che importa cosa separa Dante da Benigni, seguite cosa li unisce e teniamo presente che il primo era esule, costretto a star fuori dalla porta della sua «realtà», mentre il secondo sta dentro, così dentro da citare i personaggi dei suoi «gironi» a distanza d’alito da loro. Per questo, il ritratto, la galleria di ritratti dedicati ai politici, in un sistema che sembra in grado di digerire lo sgarbo, è lavoro affidato a una visione piegata dall’umorismo. Infatti, la gente, il pubblico in sala ieri rideva, come rideva della devastante marginalità sociale di Chaplin, come ride - quando non è domata dal conformismo accademico - degli incubi reali di Kafka.

Ma c’è altro che unisce i due toscani, nonostante gli ottocento anni che li dividono, ed è la poesia. Ci sembra che Benigni - con Fo - non si presenti tanto sul palco in modo che, sotto il profilo professionale, si può definire «preparato», Benigni è soprattutto ispirato, sia quando sconfina con il tormentone dedicato a Clemente Mastella, sia quando cita, parlando di sesso e potere, «l’armadio delle libertà». Con il corpo piegato all’indietro, ad arco esile, «vomita» ectoplasmi poetici dopo averli immersi in un bagno epico: da Berlusconi a Prodi, da Buttiglione al solito Mastella, la quotidianità mediocre, sofferente, arrogante - quando c’è arroganza - viene trasfigurata e portata sulle stelle di una nuova mitologia con il suo carico di male e di bene, di stupidità e di ingenerosità e la offre al pubblico, a chi sa ascoltare perché sappia che la mitologia non è altro che poesia e che della mitologia non è artefice il potere, ma il poeta.

Che sarebbe stata quella scaramuccia mediterranea che va sotto il nome di «guerra di Troia» se non fosse esistito Omero? Così Benigni mostra a chi vuole ascoltarlo, a chi ha scelto quelle telecamere in una prima serata senza veline e senza reality, che la mitologia non è una divinità lontana ma materia presente, carne e sangue, vizi e virtù, un dito nel naso, una parola offensiva, una carezza. Ma usando sempre il teatro offerto dalla «casta» come modello di ogni umana rappresentazione, di ogni frustrata e dolente banalità, come ha fatto Dante. Ciascuno col suo linguaggio d’arte, con la sua chiave. E ancora, Roberto, con quel suo sguardo che si fa «politico» quando, prima di abbracciare fratello Alighieri, torna a quell’altra visione gioiosa e commossa d’Italia che rifonda il senso di appartenenza di questo popolo senza ingenuità su una comunione d’intelletto e d’arte, culturale ben prima che statuale. Guarda caso, è una delle «colpe» che qualche padano rimprovera ancora e purtroppo all’autore della Divina Commedia. Pochi giorni fa, hanno detto: Benigni lasci stare Dante, perché il divin poeta non merita quelle comiche amenità. Fortuna che Roberto non gli ha dato retta.Fonte L'Unita

Technorati technorati tags: , , ,

Nessun commento: